giovedì 30 aprile 2015

Il Mito del Giardino, alla ricerca dell’Eden perduto

Recita  un antico detto cinese :“se vuoi essere felice un’ora, inebriati, se vuoi essere felice tre giorni, prendi una donna,  se vuoi essere felice tre mesi,  prendi un maiale e mangialo in tre mesi, se vuoi essere felice tutta la vita diventa giardiniere”.


Il primo giardino della storia è proprio quello di Adamo ed Eva, l’Eden che ci preserva dalla vita grama e dal disordine del mondo come i giardini dell’antica Persia protetti dai muri e alte siepi dette pairi (tutt’attorno) daesa (baluardo), che in greco diventerà Paradeisos ossia Paradiso, quando il primo scrittore della storia Senofonte, tornerà dalla sua storica camminata nelle terre di Artaserse.


Anche  il Corano promette ai fedeli un giardino di delizie riparato dal freddo e dal gelo, ricco di palme e melograni, verdi pascoli e fiumi di vino, latte e miele, dove si potrà restare  sdraiati in compagnia di belle fanciulle. La storia dei giardini ci porta lontano in compagnia di medici e filosofi come Aristotele, TeofrastoAvicenna, Plinio, Ippocrate, Galeno e Discoride. Ci porta all’alba della civiltà, al témenos, lo spazio sacro dei greci, conduce al viridarium dei contadini romani esiliati in città,  protetto da Apollo o Priapo, dio dei giardini.
Giardino significa passaggio dal nomadismo alla vita sedentaria, accettazione del limite. Forse per questo milioni di persone “urbanizzate per forza” hanno i sensi atrofizzati e la natura, con tutti i suoi simboli (alberi, animali, acqua), non suscita più che emozioni superficiali. Sarebbe bello tentare una storia dei giardini sulla base dei sentimenti che in ogni epoca suscita il verde “umanizzato”: dalla gioia edonistica provata dai pochi cortigiani nei giardini all’italiana del Rinascimento, all’indifferenza dei tanti per i quali oggi il verde non significa quasi più nulla. Lo stile  italiano ricerca un’armonia razionale, lo stile romantico esprime malinconia, il barocco è un tripudio di forme per la gioia di stupire.


I giardini medioevali ispiravano quiete e raccoglimento: l’hortus conclusus, il giardino claustrale dove il monaco pregava, spingeva alla contemplazione, semplicità e grazia (anche in senso cristiano, come salute dell’anima e del corpo) erano caratteristiche dell’ hortus sanitatis, il giardino erede degli Orti dei Semplici nell’antica Grecia e di Roma, dove con le virtù delle piante, miscelate a sostanze animali e minerali,  curavano le malattie. 


Se nel Barocco e nel Rococò, spiega lo scrittore Lichacev “le illusioni ottiche erano burle” (basta inoltrarsi, stupefatti, fra  i mostri di Bomarzo, vicino Viterbo), per i romantici, invece, i giardini  simboleggiano la mesta illusorietà tipica di un mondo pervaso di malinconia e grazie a questo culto della malinconia nei parchi romantici non c’è posto per l’ironia e  per lo scherzo. Nei giardini romantici la riflessione era connessa non tanto con lo studio “impassibile” e  “scientifico” del mondo e con lo stupore di fronte alla saggezza e alla varietà della natura (come nei giardini barocchi), quanto con una mentalità che non tollera né riso né sorriso. Se nella pittura rococò, soprattutto nelle scene pastorali gli elementi paesaggistici lasciavano spazio all’allegria, al sorriso, a una sfumatura ironica, i giardini preromanici e romanici, invece, li escludevano senza appello”. Il romanticismo, dice Lichacev, è l’ultimo grande stile dell’arte di parchi e giardini, ma ciò non significa naturalmente che anche in tempi recenti siano mancati i grandi maestri dal brasiliano  Burle Marx a Russel Page il “giardiniere” che lavorò nei giardini più belli del mondo, dalla Francia agli  Stati Uniti, dal Venezuela all’Egitto.
Page amava i giardini  “a stanze”, microcosmi piccoli e proporzionati racchiusi da alte siepi, ciascuno con un colore dominante “Se dovessi scegliere un luogo per il mio giardino - scrisse - preferirei una conca piuttosto che la cima di una collina: un panorama e un giardino abbinati si rubano, l’attenzione vicendevolmente”.


Nel giardinaggio, scriveva Herman Hesse, “c’è qualcosa simile alla presunzione e  al piacere della creazione:  si può plasmare un pezzetto di  terra come si vuole… si può trasformare una piccola aiuola, un paio di metri quadrati di nuda terra, in un  mare di colori, in una delizia per gli occhi, in un angolo di paradiso”.

Fonte: Specchio della Stampa febbraio 1997 numero 54
Articolo di Carlo Grande

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