“Quel
lontano mar” a “quei monti azzurri” riconoscendo che: … “una grandissima parte
di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come
a dire, i campi lavorati, gli alberi e le
altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e
cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vita di ogni
paese abitato da qualunque generazioni di uomini civili, eziandio non
considerando le città, e gli altri luoghi, dove gli uomini si riducono a stare
insieme, è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura.” (Giacomo Leopardi in
Elogio agli uccelli – Operette Morali 1824).
Questo
è ciò che osservava il grande Poeta di Recanati ammirando il paesaggio
collinare, ossia il risultato è quindi il prodotto della “costruzione sociale”
del territorio, nel quale per secoli si è mantenuto un valido equilibrio
ecosistemico, che oggi, purtroppo, si va perdendo.
Nelle
colline, in base alle quote e alle acclività, si possono distinguere almeno due
aspetti che condizionano in modo evidente il paesaggio: in quella di modesta
altitudine e nelle piccole aree vallive, presenti nella regione in corrispondenza
dei corsi fluviali, si è sviluppato il paesaggio della moderna agricoltura
industrializzata. Si tratta di zone che
si contraddistinguono per una notevole uniformità, con scarsa diversificazione
delle colture, prevalentemente rappresentate da frumento, orzo, granturco,
girasole e sorgo.
Le
colline più elevate e con versanti maggiormente acclivi sono invece, ancor
oggi, caratterizzate da paesaggi armoniosi in cui centri abitati,
prevalentemente in posizione di poggio, si alternano a zone agricole caratterizzate
da una consistente diversità dell’eco-mosaico, di cui fanno parte, oltre alle
colture come la vite e l’olivo, anche elementi non produttivi quali
querce, filari alberati e siepi. E’ ciò
che resta del paesaggio agrario di epoca mezzadrile, fase feconda della cultura
rurale marchigiana; una cultura appartenuta ad una popolazione particolarmente
attenta alle esigenze del territorio, dedita a
continue cure e a sapienti accorgimenti per salvaguardare i suoli dall’erosione,
mantenerne la fertilità e contenere o evitare fenomeni franosi. Lo studio del
periodo mezzadrile, del suo significato antropologico, socio-economico e
ambientale, ha costituito l’impegno principale di illustri storici economisti
che nelle Marche hanno trovato la massima espressione nella scuola di Sergio
Anselmi, fondatore e animatore, insieme a Renzo Paci, dell’interessante Museo
della Mezzadria di Senigallia, ricchissimo deposito di conoscenze utili per
interpretare e reinterpretare lo sviluppo socio culturale del territorio.
(Biodiversità
nelle Marche - i quaderni della selva - terzo volume 2010)
L’area
marchigiana è una delle più antiche quanto ad appoderamento mezzadrile. Atti e
documenti lo attestano sin dall’alto medioevo, anche se solo nel XV secolo si
può parlare con certezza, e per la zona settentrionale, di “mezzadria classica”
con insediamento di famiglie coloniche sui fondi, scorte vive e morte assegnate
dal concedente, con partizione dei prodotti a metà. I materiali raccolti nel Museo della Mezzadria di Senigallia appartengono dunque ad una cultura
agricola molto specifica, quella
mezzadrile, anche se nella regione
Marche non sono mancate forme di colonia parziaria, di conduzione diretta ed
anche di bracciantato, costituitosi al seguito della polverizzazione della
proprietà e con l’esclusione di molti coloni dai fondi. Questi braccianti assunsero il nome di “casanolanti”, perché
abitavano case “a nolo”, nei borghi suburbani di cittadine, villaggi e
castelli. La loro vita ebbe sempre carattere di estrema precarietà.
La
mezzadria marchigiana dei contadini perpetuò i suoi modi di produzione per
circa 6 secoli (XIV-XX). Essa entrò in fase recessiva poco prima della seconda
guerra mondiale, accentuandosi nel decennio 1950-1960, quando anche la legge
(1964) vietò nuovi contratti mezzadrili. Con la crisi del sistema è iniziata
anche la modificazione del paesaggio agrario, che ora non riflette più
l’ambiente della colonia tradizionale: casa al centro o in posizione dominante
rispetto al podere oscillante tra i 3-4 e i 20-30 ettari (mediamente) con la
famiglia contadina interamente impegnata nella produzione, con colture
prevalenti di grano, mais, uva, olivo, foraggi, canapa, con stalla e cantina
nell’abitazione, ove sono anche il telaio e l’impianto per la sericoltura.
(da
Museo della Mezzadria. Appunti per il visitatore - Comune di Senigallia)
VENDESI
La
campagna marchigiana è cosparsa da una serie di abitazioni non eccessivamente
ampie che caratterizzano l’intero territorio. Sono le case coloniche (nel 1934
in tutte le Marche ce ne sono 112.520), retaggio della conduzione a mezzadria
delle terre; esse, con la loro peculiarità, hanno contraddistinto per secoli il
paesaggio delle campagne e stanno a testimoniare quel cospicuo patrimonio culturale,
sociale e storico della realtà agricola della nostra regione. Con il modo
diversificato di condurre i terreni prodotto dalla meccanizzazione, una parte
di questi fabbricati sono stati adattati alle esigenze degli attuali
agricoltori, per cui sono diventati comode e confortevoli abitazioni, del tutto
simili a quelle di città, mentre altri sono stati lasciati all’incuria e
finiscono per andare in completa rovina. La casa colonica, che ha dato alloggio
per tanto tempo alla famiglia del contadino, ha origine con la mezzadria, un
patto agrario iniziato a diffondersi nel Millequattrocento, quando si avvertiva
il bisogno di un forte cambiamento. Certi documenti così evidenziano quel
felice momento: «dalla Marca, romagnoli et lombardi alli quali dette certe quantità
di terre per case e piantar vigne et per seminar grano, et quelli comenzarono a
sboscare le selve et boschi et a sementar et furon fatte d’ample et magne
possessioni». L’afflusso di intere famiglie, provenienti da più parti d’Italia,
era stato determinato da una condizione economica favorevole, che prevedeva il
mettere a disposizione dei lavoranti la casa, gli attrezzi e gli animali da
lavoro, per essere, a loro volta, ricompensati con la metà dei raccolti.
L’abitazione rurale si differenziava a secondo della posizione geografica:
quella delle valli e della bassa collina, ad esempio, era più ampia e
maggiormente ariosa rispetto alle altre dell’alta collina e della montagna. Ciò
era dovuto alla minor rendita delle terre, che condizionava il proprietario ad
economizzare anche sui materiali. Questi erano reperiti, in genere, sul posto:
così abbiamo:
Casa colonica con solaio:
di solito costruita in pianura, a due
piani, con la scala per il piano
superiore interna, che conduceva direttamente alla grande cucina. Questa
era provvista di un grande focolare detto arola, luogo centrale dove la
famiglia si riuniva a conversare. La stalla era posta ad est, e in
corrispondenza al piano superiore c’erano le stanze da letto, questo perché
oltre a sorvegliare gli animali, rendeva queste stanze le più calde. Sempre al
primo piano si trovava il magazzino. All’esterno prendevano posto
gli accessori come: il capanno per gli attrezzi e il forno. Ad ovest si trovava
la cantina e l’ovile. Nel sottoscala la porcilaia o il pollame.
Al
piano terra si poteva trovare il locale dove veniva tenuto il
telaio per i lavori di
tessitura e per tessere la dote delle giovani spose.
Il
forno esterno in cui si cuoceva il pane, gli arrosti ma anche la
canapa e le ghiande
Il
pozzo, fondamentale l’approvvigionamento dell’acqua potabile,
posto vicino alla casa, o anche isolato possibilmente a monte della casa e
lontano da stalle o concimaie, per garantirne l’igiene.
La
cantina serviva per conservare le botti di vino, qualche
volta era interrata per garantire maggior freschezza.
Il
fienile veniva utilizzato per tenere a riparo e conservare per
l’inverno il foraggio per gli animali.
VENDESI
Casa colonica con scala esterna: si trovava principalmente nelle zone collinari. La scala arrivava
direttamente nella grande cucina e poteva essere coperta del tutto o solo il
pianerottolo d’ingresso.
VENDESI
Rif.: 4178 - Tra Ostra e Ostra Vetere, zona collinare e
panoramica, casa colonica di circa 230 mq totali.
Casa padronale o a pianta quadrata: più signorile e disposta su due piani, aveva dettagli architettonici
particolari e porta d’ingresso ad arco con cornici in laterizio. Di solito non aveva
la stalla al piano terra ma la cucina,
mentre ha la sala e le numerose camere erano al piano superiore.
VENDESI
Rif.
2381 - Mondavio - Casale rustico di circa 400 mq
La casa torre: (1200-1300), poi trasformata successivamente in palombara (1500-1600):
situata in zone interne e boscose prendeva il suo aspetto dalle costruzioni
militari. Costruita con materiali del luogo, possedeva un’alta torre che
sovrastava la vegetazione per un’ottima visibilità e difesa. Le mura erano molto
spesse e le finestre formate da strette feritoie.
Ne
1600 la casa torre diventa Palombara o colombaia e la torre diventa coperta ed
adibita a ricovero per la colombe per fornire ottima carne e ricco fertilizzante.
La casa con bigattiera: si diffonde intorno all’ottocento. Nei periodi
dell’anno in cui l’attività agricola è minore, la manodopera è impegnata
nell’allevamento di bigatto o baco da seta.
Si
costruiscono così case con bigattiera laterale o centrale, quest’ultima era la
più diffusa. La case a bigattiera presentavano un porta finestra caratteristica
provvista di ringhiera. Per creare un ambiente idoneo al baco da seta le
finestre erano ampie per una migliore areazione e provviste di scuri per
un far entrare il sole nelle giornate
più calde. In inverno il locale veniva
riscaldato con le stufe poste agli angoli della stanza.
VENDESI
Rif.: 3861 - Senigallia - circa 6 km dal mare, casale rustico di
350 mq
La casa di terra: costruita
con materiali poveri: un composto di
terra e paglia. La lavorazione veniva effettuata in primavera o in
autunno altrimenti il sole avrebbe
seccato troppo in fretta il composto o al contrario, il gelo lo avrebbe indurito
eccessivamente. Un tempo queste particolari costruzioni erano numerose, oggi
sono visibili a Serra dé Conti, nella Vallesina e nell’alto maceratese.
Intorno
alla casa colonia vi era un ampio cortile, delimitato dai pagliai, si curavano
gelsi, olmi, noci e fichi. Inoltre vi trovavano spazio l’aia, la concimaia
(a fossa o a piattaforma per la raccolta del letame) e la pozza
per la raccolta dell’acqua piovana; vicino a questa in una piccola porzione di
terra erano ricavati l’orto e un minuscolo giardino. L’aia era
uno spazio di terra battuta, su cui avveniva, tramite le operazioni di
battitura, la cernita dei prodotti destinati all’alimentazione come, grano,
orzo, granturco, fave, fagioli e ceci. I lavori di raccolta hanno sempre
comportato un gran numero di manodopera, reperita presso le famiglie dei
casanolanti e di altri contadini della zona, ricambiati questi con la
prestazione d’opera, mentre gli altri erano ricompensati con prodotti in
natura. Durante tali prestazioni ci si distraeva, colloquiando
ininterrottamente o intonando canti. Il repertorio marchigiano contemplava, in
particolare, i canti a batocco o alla longa (cioè particolari canti a due
voci), stornelli di sfottò o strofe di messaggi amorosi. Alla conclusione dei
lavori si era soliti spesso improvvisare danze al suono di un organetto o di
una fisarmonica, i balli più comuni erano il saltarello e la furlana.
(Emilio
Pierucci)
Tratto
da: famiglia marchigiana
e
da Enciclopedia Treccani.
Dal
punto di vista sociale la mezzadria crea una speciale cellula familiare
patriarcale molto chiusa e governata in modo autoritario dal capofamiglia, il
vergaro (perché simbolicamente tiene in
mano la verga, intesa come scettro del comando), che ha potere quasi assoluto
sulla gestione dell’azienda, e sulle vite dei figli, nipoti, pronipoti e nuore.
In effetti le donne sono anche soggette al giudizio della vergara (che può essere
la moglie del vergaro o una sposa di un altro uomo autorevole del gruppo) a cui
spetta per intero l’organizzazione della casa, della suddivisione del lavoro,
fino agli acquisti di abiti per grandi e piccoli. La famiglia colonica, che
oltre a mantenere se stessa deve corrispondere al padrone una fetta
considerevole degli introiti e quindi non può permettersi un aumento di bocche
sproporzionata rispetto alla dimensione del podere, pratica un severo controllo
delle nascite e un’oculata strategia matrimoniale.
Una
vita difficile dunque quella dei mezzadri, ritmi convulsi del lavoro nei campi,
pesanti oneri, padroni spesso esosi e fattori (rappresentanti della proprietà)
che qualche volta lasciavano poco spazio alle trattative.
Due
sono gli elementi che consentono alle famiglie di sopravvivere: l’intelligenza
e la lungimiranza del vergaro, e poi il tipo di agricoltura a coltivazioni
promiscue e frazionate, la “rotazione”, praticata sistematicamente nelle
Marche. Una procedura che, oltre a rendere variegato e sempre diverso il
paesaggio, preserva la produttività dei terreni e garantisce dai fallimenti e
dagli anni di scarsi raccolti sempre possibili nel caso di culture intensive.
(da
101 storie sulle Marche che non ti hanno mai raccontato di Marina Minelli – Newton
Compton)
I contratti di colonia erano documenti che il colono e il proprietario
sottoscrivevano per la conduzione di un podere.
Di
seguito sono elencate le regole generali dei contratti in vigore nella zona di
Senigallia nel 1840 riportate dal libro “Mezzadrie terre nelle Marche” di
Sergio Anselmi del 1978.
° Qualunque persona addetta alla Colonia
volesse ammogliarsi dovrà averne ottenuto dal Colono contraente il consenso che
non potrà da questo accordarsi senza averlo in pria dal Padrone.
° Essendo l’amore verso i simili, e la
pace domestica principale sorgente di felicità in terra, qualora tutti gli
individui componenti la famiglia colonia non vivessero più in perfetto accordo
coll’amarsi, e compatirsi scambievolmente, ovvero vi sorgesse un qualche
individuo sussurrone, armigero, giocatore, o che frequentasse le osterie, sarà,
come quegli è che è causa di discordia, e scandali, espulso sul momento dalla
Colonia, sostituendosi un garzone.
° Non potranno mai farsi nella Colonia
balli, festini, giuochi, vendita di vino, caccie, ed altro che possa produrre
demoralizzazione, od arrecar danni, servitù ecc.
° Il Colono non potrà rifiutarsi ai comandi del Padrone, ed ai lavori di
campagna nei giorni di feste abolite dai Sommi Pontefici, e di cui ora è dispensata
la osservanza appunto per favorire l’agricoltura e per allontanare l’ozio dalle
famiglie.
° Non sarà lecito di innaffiare il
terreno né parte del medesimo senza averne pria ottenuto il permesso dal
Padrone. Non potrà pure permettere il Colono che si faccia dal alcuno parate
lungo i fossi, né che si pongano ad asciugare sui prati, tele, biancherie, ecc.
° Se si attentasse il Colono di dare a
chiunque per regalia, od altro per qualsiasi titolo la benché minima parte dei
prodotti del terreno che ha ricevuto a Colonia, prima che siasi proceduto alla
divisione dei medesimi, potrà essere, illico et immediate, cacciato con tutta
la sua famiglia qual reo di furto.
In
conclusione, un pensiero di Guido Piovene, autore di un approfondito reportage
attraverso l'Italia tra il 1953 e il 1956, che
percorrendo le Marche illustrò molto bene il rapporto tra i luoghi e le
genti, e di come il duro e faticoso lavoro del contadino abbia creato un
paesaggio del tutto particolare ed armonioso:
"E
la collina marchigiana, volgendosi verso l'interno, è quasi un grande e
naturale giardino all'italiana. Non è la collina toscana, né quella umbra, né
la veneta. É dolce, serena, patetica, lucida, priva di punte."(...) La
vita contadina acquista nelle Marche il massimo suo splendore, e il lavoro
concorre alla bellezza e lucidità del paesaggio.